Intervista

Aruba accelera sul filo dell’internazionalizzazione



La partnership con Ducati in Superbike, il nuovo data center di Ponte San Pietro verso cui convergeranno multinazionali e aziende italiane spinte a Sud dalla Brexit, la strategia a cavallo di Cloud pubblico e privato. L’a.d. Stefano Cecconi parla – letteralmente – a ruota libera

Domenico Aliperto

Pubblicato il 22 Giu 2017


Stefano Cecconi, amministratore delegato di Aruba

Chi conosce la passione di Stefano Cecconi per le motociclette in generale e per le Ducati in particolare potrebbe arrivare a pensare, guardando la sua espressione soddisfatta mentre gira per i box di Marco Melandri e Chez Davies, che abbia voluto dare vita al team Aruba.it Racing – Ducati per il solo gusto di poter lavorare con la musica dei motori di Borgo Panigale nelle orecchie. L’amministratore delegato di Aruba infatti non si perde una gara del calendario della Superbike, il campionato mondiale a cui è iscritta la scuderia, ed è alla tappa di Misano Adriatico, lo scorso weekend, che Digital4Trade l’ha incontrato.
Al netto di una passione veramente bruciante – tant’è che anche durante le interviste Cecconi non distoglie mai lo sguardo dai megascreen con i tempi dei suoi ragazzi – la scelta è stata però squisitamente strategica: «Avevamo bisogno di costruire visibilità sui mercati esteri, e in particolare nei Paesi europei, perché è lì che Aruba si sta espandendo. In passato, la sponsorizzazione del Torino FC ci ha permesso di consolidare l’immagine sul territorio nazionale, ma il calcio per l’appunto ha una dimensione prettamente italiana. Così dopo esserci guardati intorno abbiamo puntato sul motociclismo, escludendo il MotoGP perché per lo più orientato all’Asia e scegliendo la Superbike, che ha una copertura geografica ideale. Volendo poi creare un team anziché semplicemente avviare una sponsorship, cercavamo un costruttore col quale ci fosse coincidenza di interessi, e l’abbiamo trovato in Ducati. Senza contare», scherza ma fino a un certo punto Cecconi, «che in ogni azienda c’è almeno un ducatista, e spesso – io ne sono un esempio – occupa posizioni di rilievo».

La partnership è giunta al terzo anno, qual è il bilancio dell’operazione?
Siamo molto soddisfatti, le nostre previsioni si sono rivelate corrette sul piano della visibilità. Ora vogliamo raggiungere gli stessi buoni risultati anche sul piano sportivo.

Qual è il meccanismo che regola la collaborazione, dentro e fuori i circuiti?
Come detto, Aruba ha un ruolo diretto e non da semplice sponsor. Questo implica maggiore impegno da parte nostra, e anche un bel po’ di tempo da dedicare alle corse, sia in Superbike sia in Superstock 1000, dove abbiamo un altro team che ci serve per coltivare i piloti Superbike di domani. È un lavoro sinergico basato su un rapporto onesto e trasparente: Ducati utilizza le nostre risorse quando occorrono e noi interveniamo laddove c’è la possibilità concreta di ridurre i costi. Ma non esiste alcun vincolo contrattuale rispetto alla scelta dei servizi Aruba. Vengono adottati, senza corsie preferenziali, solo se rappresentano la soluzione più opportuna a specifiche esigenze. Crediamo fermamente che le forzature, col passare del tempo, rivelano tutti i loro limiti. D’altra parte, pur essendo di supporto rispetto alla parte IT, non abbiamo nulla da insegnare a Ducati: è evidente che dal punto di vista del calcolo e della simulazione l’azienda sa il fatto suo.

L’altra sfida è il nuovo data center campus di Ponte San Pietro (BG), il più grande d’Italia, con 18 mila mq coperti e fino a 500 posizioni aperte…
Esatto. L’inaugurazione ufficiale avverrà il 5 ottobre, ma posso dire che il 50% del data center è già assegnato. Una percentuale tra il 15 e il 20% dello spazio disponibile sarà destinato a uso interno, il resto è dedicato alla Colocation, i cui servizi sono di solito molto voraci in quanto i clienti occupano armadi senza usare fin da subito tutti i vani a disposizione. La scelta di Ponte San Pietro ha motivazioni ben precise: al contrario di Cloud e Managed services, nel mercato della Colocation le aziende hanno necessità di inviare spesso i propri tecnici nei data center dei fornitori. Per questo ci servivano un tipo di struttura e una location diverse rispetto al passato. Il campus è dotato di una centrale idroelettrica di nostra proprietà, e siamo gli unici in Italia a offrire soluzioni nell’ordine di grandezza dei MegaWatt. Creare un terzo data center ad Arezzo, inoltre, non avrebbe avuto senso, visto che molte delle imprese che richiedono questi servizi si trova al Nord, senza contare che la Brexit sta facendo cambiare ruolo a Londra spostando il baricentro del mercato verso Parigi, Francoforte e Milano. Le multinazionali e gli OTT che devono erogare servizi per la piazza tricolore hanno convenienza a sceglierci, così come ce l’hanno le aziende italiane che pur avendo da tempo l’intenzione di rientrare, fino a pochi mesi fa fa trovavano le soluzioni di cui avevano bisogno solo all’estero.

Qual è l’orientamento dei clienti rispetto al Cloud?
Fuori dal nostro mercato, il Cloud pubblico va molto bene. Mentre in Italia è ancora prevalente la componente di Cloud privato, ed è comprensibile: rappresenta il passo più breve per accedere alla Nuvola ed è del tutto trasparente quando ci sono migrazioni con sistemi legacy. Le imprese vogliono migrazioni chiavi in mano con servizi gestiti. Per passare al pubblico servono inevitabilmente sforzi maggiori. C’è un’ulteriore differenziazione: il privato viene utilizzato soprattutto per ambienti di produzione, mentre per gli ambienti di sviluppo viene scelto – e noi stessi lo proponiamo – il Cloud pubblico. Risulta molto più conveniente quando c’è da sperimentare ed eventualmente fallire.

Cosa è il Cloud ibrido per voi?
Per qualcuno significa miscelare infrastrutture fisiche e virtuali, per altri è garantire continuità tra on premise e outsoucing. Noi affrontiamo entrambi gli approcci, consapevoli che il Cloud non è la panacea di tutti i mali. L’ibrido, naturalmente, facilita l’outsourcing, e funziona perché invece di costituire per l’organizzazione un cambiamento traumatico, consente al cliente di far evolvere l’IT passo per passo in direzione del Cloud. L’ibrido è poi fondamentale quando si tratta di predisporre soluzioni di disaster recovery, soprattutto sulle macchine virtuali.

Come si coniuga il piano di internazionalizzazione con la strategia di vendita e di canale?
Sviluppiamo relazioni con system integrator dislocati sul territorio dei mercati che ci interessano. Al di là del fatto che servono partner che possano seguire i clienti da vicino, non bisogna sottovalutare le questioni linguistiche. Ma, a seconda dei Paesi, completiamo la nostra offerta anche con acquisizioni o società create ex novo. In Francia per esempio abbiamo fondato un ufficio da zero, in Polonia – dove sta per essere inaugurato un nuovo data center – invece abbiamo acquistato un’azienda locale. In ogni caso, non vogliamo sostituirci ai system integrator, mentre, se parliamo di rivenditori, sappiamo bene che nessuno acquista i nostri servizi per riproporli limitandosi ad applicare un margine: rappresentano piuttosto la base per erogare a loro volta soluzioni proprietarie.

Quanto pesano le Pmi sulle vostre attività?
Il mix dei nostri clienti rispecchia la realtà del Paese. Il peso specifico dei clienti enterprise è elevato, ma la massa di Pmi è tale che in termini di fatturato rimangono preponderanti. E ne approfitto per segnalare che le Pmi, specialmente quelle a forte consumo IT come le startup, sono molto forti sul Cloud pubblico.

Come descriverebbe la startup italiana?
Ancora immatura. Quella della startup da noi è partita come moda, e molti sono stati accecati dal miraggio di creare in pochi passi un’app da rivendere al migliore offerente. Inoltre in Italia registriamo un deficit di competenze, non solo digitali ma anche finanziarie. In una parola, le banche non hanno consulenti capaci di andare in profondità nella valutazione del potenziale delle giovani imprese, che fanno quindi fatica ad accedere alle risorse di cui hanno bisogno. Aruba è molto attiva sul fronte del sostegno alle startup. Un po’ perché cerchiamo di costruire i nostri clienti di domani, un po’ perché dialogare con menti creative fa sempre bene, sia ai nostri ingegneri che ai nostri clienti. E poi, lo ammetto, è divertente avere a che fare con gli startupper. Quasi quanto la Superbike.

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