Reti

Perché non c’è più la net neutrality negli USA

I repubblicani riescono a far votare l’abrogazione della norma Obama sulla neutralità della rete. Ora si apre una fase piena di rischi ma anche opportunità

Pubblicato il 18 Dic 2017

Paolo Longo

net neutrality

Da febbraio 2015 a dicembre 2017, da Barack Obama a Donald Trump. Tanto è durata la norma sulla neutralità della rete (net neutrality) negli Stati Uniti. Ci ha messo poco Donald Trump a far cambiare idea alla FCC, l’agenzia che gestisce e coordina le attività degli operatori e degli organi di telecomunicazione negli USA, tlc e provider internet compresi. Semplice: al passaggio da un’amministrazione all’altra cambia anche il colore della maggioranza dell’organo, divenuto dunque a prevalenza repubblicana. Del resto, da un imprenditore come Trump non potevamo attenderci qualcosa di diverso se non la volontà di creare maggiore concorrenza tra i big del web, indirizzando il business digitale verso nuove forme di monetizzazione, sinora assenti.

Nella pratica, con la net neutrality, negli USA era vietato offrire pacchetti di connessione differenti per tipologia di servizio o utente. Qualsiasi cliente di uno dei tanti fornitori disponibili, aveva diritto ad accedere a internet con la stessa velocità degli altri, al netto delle infrastrutture presenti sul proprio territorio, senza restrizioni circa le attività da compiere online. Allo stesso modo, chi ha un 20 mega a Roma viaggia in maniera simile a un 20 mega di Milano, considerando rallentamenti temporanei, blackout improvvisi, lavori di manutenzione o casualità varie. Insomma: un 20 mega (così come le altre offerte) è un 20 mega sempre e la velocità minima garantita vale per ogni cosa che si voglia fare online, dallo streaming di video all’ascolto di canzoni e navigazione sui social network.

Con l’abrogazione della norma del 2015, il mercato della connettività a stelle e strisce cambia radicalmente. Nessun provider ha più l’obbligo di fornire lo stesso servizio a tutti, con l’opportunità invece di creare categorie di utenti basate sul canone sottoscritto. Il clou di tutto questo si avrà probabilmente tra un paio di anni, con l’avvento del 5 G. A quel punto il Facebook di turno potrà dire ai suoi iscritti “vuoi sfruttare prima di altri il 5G sulla nostra piattaforma? Bene, sottoscrivi il pagamento extra di tot dollari con il tuo operatore”. Si tratta solo di una probabilità, per nulla certa ma sicuramente possibile.

E questa è solo una faccia della moneta, che potrebbe prevedere tanti altri spunti circa le strategie business. Pensiamo allo streaming multimediale: oggi chi ha un abbonamento a Netflix o Amazon Prime Video paga secondo alcuni paletti, tra cui il numero di dispositivi dai quali fruire del servizio e la qualità della trasmissione (HD o standard). Domani una simile differenziazione potrà esservi in via preventiva, alla sottoscrizione del contratto con la compagnia scelta per la connessione.

Comcast, AT&T, Verizon e le altre avranno la possibilità di includere, a prezzo aggiuntivo, l’accesso ad alcune piattaforme e l’esclusione di altre, così come l’apertura a modalità di collegamento premium, senza restrizioni di sorta. I difensori di internet in quanto bene primario (come era stato definito dalla vecchia FCC) vedono all’orizzonte una rete a due corsie, anzi a più corsie, dove chi resta a destra rischia di essere sorpassato sempre, in termini di velocità e qualità.

La teoria del più paghi, più ottieni diventa realtà e spingerà le persone a sostenere costi maggiori sulla bolletta periodica. Inoltre, solo i marchi principali potranno giocare al rialzo, data l’altro numero dei già iscritti e il portafoglio di contenuti diffusi (pensiamo ai  competitor di YouTube tra cui Hulu e altre startup), mentre le piattaforme emergenti si ritroveranno a fornire un servizio danneggiato in partenza perché impossibilitate a sfruttare canali migliori. Queste non avranno la forza di contrattare con i provider o di chiedere agli utenti uno sforzo economico ulteriore, quando si ritroveranno contrapposte a nomi quali Google, Facebook, Apple e tutto il resto di multinazionali dominanti.

Insomma la decisione del governo è tutta da buttare? Forse no. I repubblicani, già nel 2015, avevano affermato come difendere la neutralità della rete volesse dire bloccare l’innovazione. In che senso? Obbligare tlc e provider a restare sempre allineati avrebbe rallentato la sperimentazione da parte dei gruppi più grandi, sia in termini di migliori tecnologie che di servizi. Proporre ai consumatori accessi sperimentali, per provare alcune novità (come il 5G in anticipo solo per alcune app), non sarebbe stato corretto, anzi era da considerarsi del tutto illegale. Il voto recente apre invece a contesti applicativi più snelli, fluidi e versatili anche se, ed è innegabile, gli utilizzatori si ritroveranno in un mercato con minori garanzie, con il rischio di pesanti ripercussioni sul loro portafoglio. Magari ci sbagliamo, ma le premesse non sono delle migliori.

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