La crisi economico-finanziaria che le imprese, italiane e non, stanno fronteggiando ormai da diversi anni ha reso il tema dell’internazionalizzazione un argomento molto attuale. Ma cosa si intende per internazionalizzazione e come si colloca il sistema Italia nel nuovo contesto globale? Quali sono gli obiettivi e le sfide dell’internazionalizzazione? Può davvero servire a colmare quel gap che distanzia il nostro Paese da quelli più avanzati?
L’internazionalizzazione è, innanzitutto, una scelta e una pratica che abbraccia svariate discipline. Dall’economia internazionale, al marketing, alle strategie aziendali, l’economia d’impresa. In generale, appare chiaro, come l’investimento all’estero non possa più intendersi, come pura e semplice delocalizzazione produttiva. Analogamente, non è percorribile la strada della forma puramente commerciale di crescita internazionale, rispondente alla logica del “produrre a casa per esportare altrove”.
A dirlo sono le stesse imprese secondo cui, però, l’internazionalizzazione si rivela essere, nel tessuto italiano composto da PMI, un percorso ricco di opportunità da cogliere. Allo stesso tempo, lo ritengono puntellato da ostacoli e incertezze. Molte aziende non pensano neppure all’internazionalizzazione, nonostante siano già esposte ad un’intensa concorrenza internazionale e nazionale. Non riescono ad entrare nell’ottica che vi sia ormai la generale consapevolezza che esiste un rapporto diretto tra l’internazionalizzazione e l’aumento della produttività. Quali sono le ragioni?
Se ne è parlato al Demand Generation Lab 2022, il più grande evento gratuito dedicato al Digital Marketing per il settore B2B organizzato da Digital360 in una tavola rotonda che ha coinvolto Stefano Battiferri, Head of Latam del Gruppo e Luca Quagini, CEO & Founder di SDG Group.
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Quali sono gli obiettivi dell’internazionalizzazione e perché questa propensione è piuttosto scarsa in Italia?
Attualmente Simone Battiferri ricopre il ruolo di Head of Latam in Digital360 in cui sta guidando l’internazionalizzazione del Gruppo in Sud America, area che conosce bene e dove ha ricoperto il ruolo, tra gli altri, di CEO di Telecom Argentina, la filiale di Telecom Italia in Argentina e nella sua carriera manageriale altri ruoli apicali di respiro internazionale.
“Generalmente – spiega Battiferri – la scelta di internazionalizzare risponde alla volontà di individuare e affermarsi in altri mercati di sbocco. Certo, alcune aziende, in particolare quelle di produzione, possono usarla per ridurre i costi di produzione, ma statisticamente rappresentano una parte minore del fenomeno nel complesso”.
È certo che noi siamo un po’ indietro o diversi rispetto ad altre realtà. Francia e Germania hanno circa il doppio delle nostre multinazionali. Noi abbiamo pochissimi punti percentuali delle aziende che si possono definire tali. Sicuramente una componente fondamentale è data dal tessuto imprenditoriale del nostro territorio: abbiamo milioni di partite IVA, ma le grandi aziende sono poche.
Il fenomeno si rivolge ad aziende o molto smart o con una certa dimensione e maturità. Questo perché le dimensioni dell’organizzazione e la struttura organizzativa devono essere adeguate ad affrontare un percorso che prevede sfide importanti, anche a livello finanziario (l’internazionalizzazione costa in termini di cassa). Occorrono giuste dimensioni e capacità finanziaria.
Statisticamente le aziende che appartengono al 3% delle multinazionali sono quasi tutte aziende sopra i 100 milioni di euro di fatturato, perché si raggiunge una size e capacità finanziaria adeguata. A ciò si uniscono fattori più soft, meno hard, statistici: uno è il modello con cui ci si internazionalizza; quali sono i fattori di successo, detto in altri termini.
Sicuramente c’è un tema importante che è quello di accettare cambiamenti profondi all’interno dell’azienda: i modelli di governance cambiano e il tema di inerzia rispetto al passato frena. “Noi italiani viaggiamo tanto, ma effettivamente non abbiamo tanti italiani che scelgono volontariamente di andare a lavorare all’estero. Ce ne sono tanti perché spesso, anche in passato, sono stati obbligati a cambiare” continua Battiferri.
Occorre poi capire che i mercati locali hanno culture diverse, bisogna sapersi adattare e adottare modelli di successo che non è detto che funzionino altrove. Last but not least c’è un tema di modello di controllo: occorre conciliare e bilanciare l’autonomia locale rispetto alla centralizzazione.
“Qualche tempo fa – racconta Battiferri – ho partecipato ad una selezione per giovani talenti per l’ingresso nel gruppo dove lavoravo precedentemente. Sono stati scelti 200 giovani con laurea e master post-universitario: di questi 200 intervistati, solo 5 dichiararono la loro disponibilità a trasferirsi all’estero per periodi di tempo determinati. Questo sta cambiando con le nuove generazioni e credo che nel prossimo futuro ci sarà una propensione maggiore all’internazionalizzazione”.
Come si fa a capire in quali mercati è più opportuno crescere ed espandersi? Quali valutazioni bisogna fare per capire dove andare?
“La domanda ha molte risposte possibili, dipende molto dal prodotto e dal servizio: un’azienda di produzione cercherà un mercato con costi più bassi, una di servizi dove c’è più spazio e tariffe più alte” spiega Battiferri.
Un aspetto che le accomuna è la necessità di studiare tanto. Prima di una scelta di internazionalizzazione occorre effettuare un’analisi approfondita dei mercati potenziali. L’analisi deve essere condotta conoscendo la strategia di internazionalizzazione. Il modello più diffuso è oggi quello dell’M&A, le acquisizioni. Questo perché i risultati vanno perseguiti in tempo breve e per uno sviluppo internazionale, l’M&A è indispensabile almeno in parte.
Una volta definita la strategia di prodotto-servizio, si analizza la fertilità del mercato rispetto all’offerta. Un mercato frammentato accoglie con maggior valore un soggetto più grande che riesca a consolidare un mercato dove sono già presenti attori molti forti, è più difficile da penetrare.
Il segreto è dedicare una fase di analisi e studio di mesi, o anche più di un anno per verificare che l’effettiva strategia che si vuole mettere a terra sia realizzabile nel paese di destinazione, nell’M&A banalmente bisogna appurare che esistano delle aziende da acquisire.
“Per concludere – afferma Battiferri – il prodotto o servizio influenza drasticamente l’analisi, ma comunque l’analisi va fatta e deve essere approfondita”.
Stai guidando il percorso che il Gruppo ha intrapreso scegliendo mercati affini, noi siamo focalizzati sui contenuti e anche la lingua e la cultura sono importanti (Sud America e Spagna). Qual è stata la scelta strategica del gruppo e quali passi sono stati fatti?
I contenuti e la vicinanza culturale sono due aspetti chiave che hanno fatto propendere per il mercato di lingua spagnola.
C’è una tematica hard: è un mercato da 4,5 triliardi di dollari con 550 milioni di persone che parlano la stessa lingua con un approccio glocal (global e local) che vede profonde differenze culturali. Siamo partiti con una analisi di dettaglio. La nostra strategia è focalizzata su M&A, una prima acquisizione è già stata realizzata in Argentina, procediamo velocemente su altri Paesi, per mettere a terra un progetto velocemente che abbia una dimensione interessante.
Chiaramente ad una prima fase di crescita tipicamente per margin acquisition seguirà una fase di crescita organica, dove queste nuove aziende dovranno collaborare e cooperare secondo un piano di integrazione che vedrà luce nei prossimi anni. Lo stiamo facendo all’insegna della rapidità.
Il mercato sudamericano presenta caratteristiche molto simili al nostro di 5-6 anni fa, mercato estremamente frammentato che non vede leader riconosciuti. Bisogna cavalcare la tigre e speriamo di portare a termine il progetto in breve tempo almeno per quanto riguarda la prima fase.
Luca Quagini, CEO & Founder, SDG Group, porta l’esperienza della boutique di consulenza manageriale focalizzata sui Business Analytics, in altri termini sull’uso evoluto della Business Intelligence a supporto diretto della modellazione del business, che ha anticipato con lungimiranza l’approccio data-driven del business, oggi diventato un’esigenza imprescindibile. È una azienda internazionalizzata che impiega 1.700 persone, è presente in USA, Spagna, UK, Portogallo e Middle East.
SDG group sceglie di fare i primi passi all’estero già dagli anni 90 quando ancora era una piccola realtà. Come mai?
Stiamo parlando del 1994, il Web diventa pubblico in quell’anno; quindi, la scommessa a suo tempo è sui dati: la volontà era di comporre una offerta che combinasse la consulenza manageriale e le tecnologie di trattamento.
Un’idea piuttosto eretica, fondata sull’ascolto della domanda emergente che si inserisce in un contesto di fornitori e software vendor che sono mondiali, come competitor i grandi nomi della consulenza, i clienti quelli più preparati erano multinazionali.
Quindi è vero che la scommessa dei dati ci ha dato un grande vantaggio, è stata anticipativa, non solo a quei tempi poteva essere considerata eretica, ma aveva un suo prezzo, quello di giocare un ruolo e diventare nel più breve tempo possibile un player internazionale, altrimenti il tipo di opzione poteva diventare fragile nel senso della competizione e delle partnership con i vari provider di servizi e soluzioni.
Ci siamo detti che se non riuscivamo a superare i confini su pratiche che avevano un’origine anglosassone o comunque la cultura manageriale americana, voleva dire che il nostro vantaggio competitivo di proporre una formula nuova, oggi abbastanza comune, quella di consulting + dati come asset, sarebbe stato breve. L’offerta dei grandi nomi avrebbe coperto velocemente l’arena competitiva.
La scelta di internazionalizzare è stata dunque obbligata all’origine: vuoi intervenire in un mercato interessante? La competizione è internazionale.
Poi parliamo di aziende basate sulle persone e quindi anche la lotta alla ricerca dei talenti, senza posizionamento a livello internazionale, sarebbe stata difficile. I risultati fino ad oggi sembrano darci ragione. Dei 1700 consulenti e più che abbiamo oggi siamo circa 400 italiani, il resto è tutto nelle altre nazioni. Il tipo di impianto e modello di business non poteva prescindere dalla dimensione internazionale.
Come vi siete mossi e con che approccio?
SDG è un’azienda di servizi professionali, people business. Da un lato non hai asset fisici da delocalizzare o esportare, non sono operazioni si direbbe capital intensive. Dall’altro, essendo human intensive, entri nella duplice difficoltà di attrarre persone che costituiscono la base locale delle operation senza asset tangibili e senza poter garantire a priori un cambio delle condizioni, un miglioramento della presenza sul mercato, anche una value proposition con componenti vincenti.
Si cercano persone, alleanze, società, individui, con cui condividere la visione, che identificano gli stessi fattori chiave e vedono l’essere internazionale un vantaggio. Siamo partiti su Spagna, poi UK, in ordine Francia e Germania. In questo momento i mercati dove le sedi e i consulenti sono i maggiori sono Spagna e USA. Non è un caso. Di fatto, parliamo delle Silicon Valley, quella degli USA è la reale. In Spagna abbiamo 4 sedi, la prima era a Barcellona che oggi a pieno titolo può definirsi la Silicon valley europea.
L’altra area più recente del Middle East è un’area dove il mercato è attratto dalle competenze che possono essere fornite dalle società di matrice occidentale, molto ricettivo, stanno investendo nella costruzione della struttura del terziario per la loro economia, e quindi erano molto ben disposti.
Le aree dove si attecchisce sono dove c’è un fil rouge con la visione d’origine. Il punto è quello: perché è funzionato bene Spagna (dove abbiamo 800 consulenti) e meno in altri paesi con sede più piccole come UK. Dipende anche dalle persone. People business significa anche avere quella chimica che può originare da un background culturale comune.
SDG ha 30 anni di esperienza. Il progetto strategico iniziale si è dimostrato vincente con alcune realtà cresciute moltissimo, altre un po’ meno, ma sappiamo che gli ostacoli ci sono e ne avrete incontrati diversi. Vuoi condividere qualche criticità o momento particolarmente complicato che avete affrontato?
Crescere era, è e sarà una scelta obbligata. Piccolo è bello non è più un’espressione in uso. Certo crescono anche le portate degli accordi, le alleanze, i vincoli, i rischi delle operazioni, e quindi ci si ritrova in un contesto dove non è detto che un socio che è diventato tale per la sua eccellenza nella professione e che quindi ha una sua leadership di contenuto, abbia anche una propensione al rischio di tipo imprenditoriale che comporta l’aver raggiunto una dimensione che non è più del team di professionisti o di contenuto, ma diventa a tutti gli effetti una organizzazione complessa.
Una delle criticità tipiche che abbiamo avuto riguarda la necessità di fare una scelta tra soci che vedono una opportunità in maniera diversa tra loro e non conciliabile. A quel punto, la scelta determina il seguito della storia aziendale. Le scelte legate a vedere e valutare il potenziale della partnership, della collaborazione con il leader locale è fondamentale ed è elemento di criticità quando non viene risolto.
Non c’è stata criticità, ma è stata una scelta di fondo quando ad esempio la Germania, uno dei primi paesi di sviluppo, quando abbiamo deciso di fare l’operazione M&A con il Gruppo Alten – al fine di allargare la platea dei mercati e delle aree servite usando la loro rete esistente – i partner locali hanno dato per ragioni che stanno nella dimensione personale delle prospettive, parere negativo e quindi abbiamo deciso di non inglobare nella nuova SDG la parte tedesca.
Al di là di questa decisione dei partner tedeschi, è l’esempio o l’elemento di valutazione rispetto al percorso verso una società che appartiene ad un gruppo enorme a livello mondiale, lo valuto come positivo perché dopo l’operazione nessuno dei soci e dei partner è uscito dalla compagine.
Se le scelte e le operazioni di internazionalizzazione rafforzano il posizionamento della competitività, del potenziale non solo sul mercato target ma hanno anche un riflesso positivo sul business locale, sulla visibilità e sulla solidità che si riesce a dimostrare con gli interlocutori locali. Sono operazioni da studiare, ma da spingere.