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Manuel Vellutini (Akeron): “Una tech company fondata sull’amicizia e cresciuta grazie alla fiducia di un private equity” 



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Tutto è iniziato all’università, con Marco Pierallini che è co-CEO. Insieme hanno fatto una exit e poi sono ripartiti con Akeron, impresa nata e rimasta, per scelta, a Lucca. Manuel Vellutini racconta la storia dietro la crescita, a cominciare dagli insegnamenti del padre

Pubblicato il 22 lug 2025



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Manuel Vellutini, CEO di Akeron

«Alla base della mia storia imprenditoriale c’è l’amicizia. È il filo rosso che ha tenuto insieme le persone, le scelte, anche nei momenti più difficili». Potrebbero suonare retoriche le parole di Manuel Vellutini, se non fosse che è CEO di Akeron insieme con Marco Pierallini, entrambi di Lucca, si conoscono e frequentano dai tempi dell’università e fanno insieme impresa nel settore tecnologico da oltre 20 anni, con una exit importante che ha poi portato alla nascita di Akeron.

Fondata nel 2020, Akeron è una tech company italiana cresciuta rapidamente, con oltre 200 dipendenti, ricavi ricorrenti per oltre 10 milioni di euro e un posizionamento chiaro nell’ambito dell’enterprise software: “bring the power of software to the heart of enterprise”, una realtà capace di trasformare le sfide aziendali in soluzioni digitali grazie a software innovativi e flessibili che migliorano l’efficienza, il processo decisionale e le performance.

Manuel Vellutini e Marco Pierallini hanno fondato Akeron dopo aver venduto nel 2017 Tagetik, la loro precedente azienda, alla multinazionale Wolters Kluwer. Abbiamo incontrato Vellutini per farci raccontare la sua storia e la sua visione di imprenditore tech che è riuscito a mantenere le radici a Lucca senza rinunciare allo sviluppo internazionale.

Partiamo da questo filo dell’amicizia. Quando comincia a dipanarsi?
Tutto è iniziato all’università. Studiavo ingegneria informatica a Pisa, era l’inizio degli anni ’90. Lì ho conosciuto Marco Pierallini. Abbiamo iniziato a condividere l’auto da Lucca per essere autonomi, risparmiando sulla benzina. Poi abbiamo cominciato a seguire le lezioni e a studiare insieme. Abbiamo dato il 90% degli esami fianco a fianco e da lì è nata un’amicizia solida. Ma non solo: poi ci sono state la nostra prima vacanza, le prime sciate insieme, poi le famiglie… e alla fine anche il lavoro. L’amicizia è diventata il fondamento di tutto.

E come si è passati dall’amicizia all’impresa?
Dopo la laurea io dovetti partire per il militare, mentre Marco no, perché si era rotto i legamenti e fu riformato. Ricordo bene il giorno della partenza per la scuola allievi carabinieri: Marco e Andrea – un altro amico di lunga data, oggi anche lui nostro socio – vennero a salutarmi in stazione. Era un gesto semplice, ma per me significativo.

Cosa c’entra il servizio militare con il lavoro?
Durante il servizio militare, presi un permesso motivando la richiesta con un colloquio di lavoro, che in realtà non avevo. Chiamai Marco chiedendogli di farmi avere una “giustificazione” da suo padre, fondatore di un piccolo gruppo di società di informatica a Lucca. E lui mi disse che suo padre voleva vedermi davvero. Così andai a trovarlo e mi propose di lavorare con loro.

Non c’erano state altre offerte? Immagino che un ingegnere informatico doveva essere molto richiesto in quegli anni.
Certo. Io mi sono laureato con 110 e lode in un momento in cui le aziende cercavano ingegneri ovunque, per via del millennium bug. McKinsey, Accenture, per citarne alcune: ricevevo tante proposte perché in quella particolare fase storica le opportunità di lavorare, anche in una grande società di consulenza, non mancavano certo… Sono entrato in una piccola società sconosciuta di 12 persone, con un contratto da libero professionista e uno stipendio modestissimo. Ma c’erano le persone giuste e c’era qualcosa che contava di più: la fiducia, l’ammirazione, la possibilità di costruire qualcosa insieme.

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Quando hai capito che eri destinato a fare l’imprenditore?
Credo fosse scritto nel mio DNA. Mio padre aveva una fabbrica di calzature. Da bambino andavo a vedere come lavorava. Ho vissuto da vicino le preoccupazioni e i successi dell’impresa. Poi lui dovette lasciare e gestii io l’azienda fino alla chiusura. Con orgoglio posso dire di essere sempre riuscito a pagare gli operai di quella azienda, anche nei momenti di difficoltà, seguendo l’esempio di mio padre per cui quell’aspetto è sempre stato insindacabile.

L’esperienza e la cultura imprenditoriale di tuo padre ti hanno, quindi, segnato…
Sì. Per me l’impresa è anche questo: rispetto per chi lavora con te. È un valore che ho ritrovato in Pierluigi Pierallini. Lui ci ha dato spazio, fiducia, possibilità. Così abbiamo costruito Tagetik: da dodici persone siamo arrivati a seicento. Internazionalizzazione, crescita, exit. Ma sempre con lo stesso spirito.

E dopo la vendita di Tagetik, avete scelto di ripartire. Perché?
Dopo l’exit del 2017 siamo rimasti tre anni in azienda, per garantire la continuità. Poi nel 2020, con Marco, ci siamo detti: rifacciamolo. E così è nata Akeron. Inizialmente avevamo valutato un investimento su un’altra azienda, su indicazione del fondo White Bridge, ma poi Marco disse: “Perché non rifacciamo qualcosa qui, a Lucca?”. E così è stato.

A proposito del fondo White Bridge: era in Tagetik e lo ritroviamo in Akeron. Non c’è altro private equity per voi?
O forse è quel private equity che non vuole rinunciare a noi! A parte le battute, la storia inizia nel 2013, quando cercavamo un partner per accelerare la crescita di Tagetik. Volevamo un fondo statunitense che ci accompagnasse in quel mercato ma poi – un po’ per caso – siamo entrati in contatto con White Bridge, che era appena nato: noi siamo stati il loro primo investimento. Inizialmente il feeling non era dei migliori: loro non ci sembravano adeguati al nostro business. Io dissi: “Gli italiani lasciamoli perdere, non capiscono niente di software”. Dall’altra parte, loro pensarono: “Questo ha un’azienda minuscola e si crede Steve Jobs”.

C’erano tutte le premesse perché scoppiasse un grande amore…
E infatti andò così. Proprio da quella frizione iniziale nacque la volontà di approfondire. Poi ci siamo incontrati davvero, ricordo ancora a Villa Doria, una dimora tipicamente toscana di nostra proprietà intorno a Lucca, e nacque un’intesa vera.

Intesa che non è finita con Tagetik. Perché?
Finito il periodo di transizione in Tagetik, circa tre anni, nel 2020 White Bridge ci propose di prendere la guida di una loro nuova partecipata. Ma noi rilanciammo e, come ho detto sopra, pensammo: “E se rifacessimo qualcosa a Lucca, insieme?”. Pensavamo ad Akeron, che era l’altro pezzo rimasto del gruppo creato dal padre di Marco: all’epoca era tutto fuorché un’azienda su cui investire: piccola, con un piano di sviluppo ancora non molto chiaro e definito, lontana dai loro target. Ma la fiducia ormai era forte.

C’erano anche i risultati a sostenere questa fiducia…
Senz’altro. Il loro investimento in Tagetik è stato un successo enorme. Hanno ricavato più del triplo del loro investimento iniziale. Ma la cosa più importante è che hanno sempre creduto nelle persone, non solo nei numeri. Questo, per noi, ha fatto la differenza. E per questo oggi White Bridge è azionista di minoranza di Akeron, con il 30% del capitale.

Quindi siete ancora voi i soci di maggioranza. È una scelta voluta?
Assolutamente sì. Il 70% del capitale è in mano a me e alla famiglia Pierallini. Per ogni aumento di capitale, noi abbiamo investito la nostra parte e loro la loro. È un rapporto equilibrato, di fiducia reciproca. E oggi siamo anche soci, come persone, di White Bridge: investiamo nei loro fondi, li consideriamo un partner a lungo termine.

Nel momento di creare una nuova impresa avete deciso di restare a Lucca. Perché? Avreste potuto andare ovunque.
Perché è casa. E perché volevamo dimostrare che si può fare innovazione anche in un territorio non scontato. I nostri figli studiano a Pisa. Noi siamo legati a questo territorio. E volevamo creare un’azienda che potesse diventare un’opportunità per i giovani, un luogo dove formarsi, crescere, restare. Un ambiente stimolante, ma umano.

Che cos’è oggi Akeron? Qual è la vostra visione?
Siamo una tech company italiana che sviluppa software per la gestione di processi complessi: Commercial Excellence, Project Business Automation e Real Estate Management. Oggi siamo partner di fiducia di oltre 500 clienti di ogni settore e dimensione, tra cui Lavazza, Intesa Sanpaolo Private Banking, Optimize RX, Amadori, Prada, Mutti, Rummo, Randstad e molti altri. Puntiamo su tecnologie scalabili, cloud-native, e sempre più integrate con l’intelligenza artificiale. Ma l’uomo resta al centro.

Era inevitabile arrivare all’intelligenza artificiale…Qual è il vostro approccio?
L’AI può automatizzare task ripetitivi, fornire suggerimenti, migliorare la user experience. Ma non deve sostituire l’intelligenza umana. Le qualità davvero umane – creatività, pensiero critico, empatia – sono insostituibili. Per noi l’AI è come la macchina a vapore: una nuova rivoluzione industriale. Ma dobbiamo gestirla con consapevolezza.

Come vanno i numeri di Akeron?
Nel 2022 avevamo meno di tre milioni di portafoglio ricorrente e oggi siamo arrivati a 10. Stiamo proseguendo la nostra rapida espansione, con una crescita del 35% anno su anno e un team che oggi supera i 200 professionisti. Il risultato di una forte domanda di mercato, dell’eccellenza delle nostre soluzioni e del nostro impegno costante verso l’innovazione e il customer success. Il nostro portafoglio ARR consolidato ha registrato una crescita significativa, superando notevolmente tasso del mercato, che cresce a un CAGR medio dell’11,5% Abbiamo clienti in Italia, USA, UK, Francia, Romania, grandi eccellenze e leader nei loro settori di riferimento: banking, retail, largo consumo. Il software funziona, il mercato risponde, e stiamo costruendo una base solida per il futuro.

C’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare tutto? Sì, nel 2009. Avevamo appena investito per aprire con Tagetik negli USA e il mercato crollava dopo Lehman Brothers. Non posso negare che anche io vivessi le preoccupazioni tipiche di un imprenditore che si trova a dover fare impresa in un momento così critico dal punto di vista economico, a livello mondiale. Contavo le ore la notte. Ma poi le cose sono ripartite. E oggi siamo qui, con una nuova avventura.

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