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La cultura del Made in Italy secondo Marco Taisch (MADE 4.0)



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La stagnazione della produttività italiana e la scarsa propensione alla ricerca privata frenano la competitività del Paese. Il presidente del Competence Center MADE 4.0 invita a superare il mito del “piccolo è bello” e a investire in ricerca come leva di crescita e rinnovamento culturale dell’impresa

Pubblicato il 4 nov 2025



Made in Italy
Marco Taisch

Da vent’anni la produttività del lavoro in Italia è ferma. È da questa constatazione che Marco Taischdocente del Politecnico di Milano e presidente del Competence Center MADE 4.0 — fa partire la sua riflessione sul futuro del tessuto manifatturiero nazionale. Intervistato nel podcast Anima d’acciaio di Automazione News, Taisch mette in discussione uno dei dogmi storici dell’imprenditoria italiana: l’idea che il “piccolo” sia ancora sinonimo di flessibilità e successo. Oggi, spiega, è il contrario. Per tornare competitivi serve massa critica, cultura dell’innovazione e una nuova strategia di investimento in ricerca Made in Italy.

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Una produttività ferma da vent’anni

L’Italia, osserva Taisch, non cresce perché non produce valore aggiunto. «È da vent’anni che la produttività del lavoro in Italia non cresce, e quindi se perdi competitività non riesci a far decollare il PIL del Paese».

Secondo il docente del Politecnico, il Made in Italy, pur rimanendo una delle componenti centrali dell’economia, mostra segni evidenti di affaticamento. I settori della meccanica, dell’automazione, dell’arredamento e dell’abbigliamento — insieme ai rispettivi indotti — valgono circa il 53% del PIL nazionale e oltre il 50% degli investimenti industriali. Numeri che rendono evidente quanto la tenuta di questi comparti sia cruciale per l’intero sistema produttivo.

Il problema, però, è che la competitività non si costruisce più soltanto con la qualità del prodotto o con la reputazione del marchio, ma con la capacità di fare innovazione strutturale. E su questo terreno, l’Italia resta indietro.

Ricerca pubblica forte, ricerca privata debole

La fotografia che Taisch propone è impietosa. La spesa italiana in ricerca e sviluppo è pari all’1,4% del PIL, contro una media europea del 2,3% e il 3,2% degli Stati Uniti. Ma ciò che più preoccupa non è solo la quantità, bensì la distribuzione.

«Mentre in Italia il 70% dell’investimento in ricerca è pubblico e solo il 30% privato, negli Stati Uniti la proporzione è esattamente l’opposto», spiega. È un dato che riflette una carenza di propensione alla sperimentazione nelle imprese e un sistema ancora troppo dipendente dai fondi pubblici.

Per Taisch, questa situazione rappresenta un rischio concreto di perdita di competitività a medio termine. Senza una crescita degli investimenti privati in R&S, anche le innovazioni generate da università e centri di competenza rischiano di restare confinate nei laboratori. «Se la ricerca resta pubblica e non arriva alle imprese, non produce crescita reale», sottolinea.

Il ruolo dei Competence Center nella nuova cultura industriale

Come presidente del MADE – Competence Center Industria 4.0, Taisch è da anni impegnato nel collegare università, imprese e istituzioni per favorire il trasferimento tecnologico.

L’obiettivo, spiega, è creare un “ponte culturale” oltre che tecnologico: diffondere la consapevolezza che innovare non è un costo ma un fattore di sopravvivenza. In questa prospettiva, i Competence Center diventano catalizzatori di una nuova mentalità industriale, capaci di portare la ricerca accademica dentro le fabbriche e di aiutare le PMI a ripensare processi e modelli organizzativi.

Non si tratta solo di sperimentare tecnologie digitali o robotiche, ma di cambiare l’approccio strategico con cui le aziende guardano al futuro. «La ricerca non è qualcosa che si fa quando si hanno soldi in più — afferma Taisch — ma il modo per garantirsi che quei soldi ci siano anche domani».

Superare il mito del “piccolo è bello”

Il nodo centrale resta la struttura produttiva del Paese, caratterizzata da un tessuto di piccole e medie imprese che non sempre riescono a sostenere la complessità della trasformazione digitale.

Taisch definisce questo limite «nanismo culturale», oltre che dimensionale. La convinzione che le dimensioni ridotte bastino a garantire agilità e creatività, spiega, è ormai superata. «Il “piccolo è bello” non è più bello, assolutamente».

Le imprese di cento dipendenti — già considerate grandi nel contesto italiano — non hanno massa critica sufficiente per fare innovazione strutturata. Se l’1,4% del fatturato viene destinato alla ricerca, significa che una realtà di queste dimensioni può contare, in media, su una sola persona e mezza dedicata all’innovazione. «E cosa fai con 1,4 persone che fanno ricerca? Nulla», afferma con realismo.

Il problema, quindi, non è soltanto economico, ma anche culturale: la difficoltà di riconoscere che la competizione globale non si vince più sulla riduzione dei costi, ma sulla capacità di generare conoscenza.

Mercati globali e orizzonti troppo stretti

A questa chiusura culturale si aggiunge, secondo Taisch, una visione limitata dei mercati internazionali. Molte imprese che si definiscono esportatrici considerano come “estero” solo Francia, Germania o Spagna. Ma, spiega il professore, «questi non sono più mercati d’esportazione: sono Europa».

Il Made in Italy deve invece misurarsi con economie solide ma anche emergenti, come India, Cina, Sud America e Africa, dove cresce la domanda di prodotti sostenibili e tecnologicamente avanzati. Senza questa apertura, l’Italia rischia di perdere terreno non solo rispetto ai colossi industriali, ma anche rispetto ai nuovi paesi manifatturieri che stanno ridefinendo gli equilibri globali.

Una generazione da rinnovare

Oltre ai limiti economici e di visione, Taisch individua un ulteriore ostacolo nella struttura anagrafica del tessuto imprenditoriale. In molti casi, le aziende italiane sono guidate da imprenditori che hanno fatto grande il Paese negli anni Ottanta e Novanta, ma che oggi faticano a riconoscere la discontinuità tecnologica in corso.

«C’è un tema anagrafico che va affrontato — osserva — perché se non aiuti il ricambio generazionale, che vuol dire spinte nuove, energie nuove, idee nuove, è chiaro che non stai costruendo il futuro».

Il ricambio, secondo Taisch, non è solo questione di età ma di mentalità. Servono figure capaci di leggere la complessità globale, di interpretare i mercati digitali e di concepire la sostenibilità come un elemento di competitività.

Verso una ricerca condivisa e diffusa

Per invertire la tendenza, occorre una mobilitazione collettiva. Università, associazioni industriali e istituzioni devono collaborare per “acculturare” il sistema produttivo, creare una rete stabile di formazione e scambio di conoscenze.

Taisch parla di «un grande movimento di Paese, un movimento di rilancio», che deve includere non solo le imprese ma anche i ministeri e le regioni. L’obiettivo è costruire un ecosistema dove la ricerca diventi patrimonio condiviso, non prerogativa di pochi grandi gruppi.

Dalla difesa all’attacco

Taisch invita a cambiare linguaggio: troppo spesso si parla di “difendere” il Made in Italy — dai concorrenti, dalla contraffazione, dai dazi — ma la difesa non basta più.

«Il modo migliore per difendere è attaccare», afferma. E attaccare, in questa prospettiva, significa innovare continuamente, anticipare i bisogni dei mercati, creare prodotti e processi che rendano l’Italia un riferimento di avanguardia, non di nostalgia.

Il rilancio del sistema industriale Made in Italy, quindi, non passa soltanto per le tecnologie 4.0 o per i fondi del PNRR, ma per un profondo rinnovamento culturale. Un cambiamento che richiede visione, collaborazione e fiducia nella ricerca come motore del futuro.

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