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Alfredo Lovati: “Affidiamo Beta 80 a una fondazione per farla durare 200 anni”



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Beta80 ha deciso di trasferire il controllo della società a una fondazione. Perché? In questa intervista esclusiva il CEO Alfredo Lovati spiega le ragioni di una scelta, che nasce dalla storia e dalla cultura dell’azienda

Pubblicato il 22 mag 2025



Alfredo Lovati
Alfredo Lovati, CEO Beta80

Affidare il controllo dell’azienda a una fondazione non è una scelta frequente. È una dichiarazione d’intenti e per Alfredo Lovati, CEO di Beta 80 , è una decisione che arriva a conclusione e a conferma di un percorso e una visione imprenditoriale che mettono al centro la cultura aziendale, la relazione generativa e l’indipendenza come valore, non come chiusura.

«Non volevamo che il destino della nostra azienda fosse deciso da un fondo che ha di solito un orizzonte a cinque anni e inevitabilmente stravolge la cultura aziendale», racconta Alfredo Lovati in questa intervista esclusiva a Techcompany360 per la nostra serie Tech Leader. «Volevamo costruire qualcosa che durasse almeno 200 anni. E per farlo, serviva un’architettura di governance che fosse allineata a questo scopo». La creazione della Fondazione Beta 80, cui i soci hanno ceduto tutte le quote della società, rappresenta la garanzia di questa continuità, e al tempo stesso un modello quasi inedito in Italia ((qui puoi leggere il comunicato dell’azienda).

Fondata nel 1986 da dieci soci, Beta 80 nasce come una vera e propria “startup collettiva”, in cui i fondatori ricoprivano ogni ruolo. Nel 1996, la prima svolta: la separazione tra proprietà e management, con Alfredo Lovati nominato Amministratore Delegato di uno dei player più solidi dell’ICT italiano, un’azienda che oggi conta oltre 500 collaboratori, sei sedi operative e progetti attivi in Europa, Medio Oriente, America Latina e Stati Uniti, con business unit specializzate in ICT Solutions, Supply Chain & Warehouse Management e Emergency & Crisis Management. Un gruppo che adesso entra nella nuova dimensione della Fondazione-azionista. Ne parliamo con il suo leader.

Con Alfredo Lovati partiamo dalla notizia: avete deciso di affidare la proprietà dell’azienda a una Fondazione. Perché questa scelta?
La ragione è semplice ma profonda: volevamo costruire qualcosa che durasse nel tempo, ben oltre i fondatori. Non volevamo trovarci a 70 anni senza aver pensato al passaggio generazionale. Ci serviva, quindi, uno strumento che garantisse indipendenza e continuità.Dopo un anno e mezzo di studio, la scelta della Fondazione è diventata naturale.Volevamo proteggere la cultura aziendale, non solo l’azienda. E ci siamo detti: se questo è davvero un valore, dobbiamo trovare uno strumento che lo renda inattaccabile.

Una scelta davvero poco frequente in Italia. Come l’avete realizzata?
Ci abbiamo lavorato per circa un anno e mezzo. Tutti i soci, fondatori e non, hanno accettato di donare le proprie quote alla Fondazione. Abbiamo rinunciato a qualsiasi interesse economico personale. Ma per noi contava di più preservare uno scopo “alto” ed un certo modo di fare le cose, cioè una cultura aziendale costruita con determinazione e passione. Abbiamo definito uno statuto, una governance, un progetto formativo per i “custodi” futuri. È una novità anche dal punto di vista “giuridico”: chi ci ha aiutato ha detto che potrebbe diventare un modello.

Qual è lo scopo della Fondazione?
Non è assistenziale, lo scopo principale non è fare beneficenza. Il suo primo compito è proteggere l’azienda. Perché crediamo che Beta 80 abbia un valore sociale in sé: nel modo in cui lavora, nell’attenzione alle persone, nella qualità delle relazioni. Tutto questo fa bene non solo a chi ci lavora, ma al contesto in cui operiamo. La Fondazione serve a rendere tutto questo “incontendibile”, al riparo da logiche speculative.

Che impatto avrà questa scelta sulla governance aziendale?
La Fondazione ha un consiglio autonomo, che non risponde a soci ma allo scopo. Abbiamo immaginato un percorso di selezione e formazione dei consiglieri, anche coinvolgendo gli alumni, le oltre 6.000 persone che sono passate da Beta 80. Vogliamo creare una sorta di “academy dei custodi”, persone che condividano davvero la nostra visione.

Facciamo un passo indietro. Beta 80 nasce come una vera e propria startup collettiva a metà degli anni Ottanta..
Sì, eravamo in dieci ex colleghi di università e facevamo tutto noi: sviluppo, amministrazione, assistenza. Questo ha forgiato una cultura del fare, della responsabilità diffusa e dell’apprendimento continuo.È stato un inizio molto formativo. Nel 1996, poi,il primo grande turning point: la separazione tra proprietà e gestione. Quello fu un passaggio chiave. Ci eravamo resi conto che per far crescere l’azienda serviva alzare lo sguardo, pianificare, dare deleghe e responsabilità. Non bastava più l’artigianato di qualità: serviva struttura.Io sono diventato Amministratore Delegato e da lì è iniziata una nuova fase. Ho dovuto imparare a “guardare avanti”, a delegare, a costruire una visione. Quella scelta ha liberato energie, ha reso possibile una crescita più strutturata.

Oggi Beta 80 è una realtà consolidata, con oltre 500 persone e una forte presenza internazionale. Quali sono i vostri punti di forza?
Direi tre: relazione, affidabilità e visione. Sulla relazione abbiamo costruito tutto. Internamente parliamo di “relazione generativa”: non è solo collaborazione, è crescita reciproca. I clienti ci riconoscono questa capacità di ascolto, di dialogo, di andare oltre le aspettative. L’affidabilità viene da qui, ma anche da scelte precise: non distribuiamo utili, reinvestiamo tutto. La visione, infine, ci ha sempre guidato: non abbiamo mai inseguito mode, abbiamo scelto di essere indipendenti, anche a costo di restare fuori da certi giochi.

Non siete mai stati tentati di cedere l’azienda?
Più volte ci è stato proposto di farlo, anche da nomi importanti. Ma ogni volta ci siamo chiesti: “Qual è il prezzo della nostra cultura?”. E la risposta è sempre stata: non vale la pena perderla. Quando scegli di crescere senza fondi, senza cessioni, scegli anche una traiettoria diversa. Magari meno spettacolare, ma più solida. Quando è arrivata la crisi del 2008, noi siamo cresciuti del 30% proprio grazie a questa solidità.

Anche le vostre acquisizioni sono state molto selettive.
Sì, non abbiamo mai fatto acquisizioni per aumentare i numeri. Le abbiamo fatte per rafforzare le competenze, per prepararci a nuove sfide. Abbiamo acquisito una parte di business da Agusta (ora Leonardo), ad esempio, che ci ha dato forza sul mercato dell’emergency management. Ultimamente siamo entrati nel settore delle acque, con un’ottica di integrazione con le nostre piattaforme. Piccole mosse, ma strategiche.

Beta80 è anche un’azienda che lavora molto con i giovani. Come li coinvolgete?

Abbiamo avviato programmi come Point of View, momenti di dialogo diretto tra i giovani e il management. I ragazzi di oggi non sono interessati alla tua esperienza, se non percepiscono che ti interessa ciò che stanno vivendo loro. E hanno ragione. Il dialogo oggi non è gerarchico, è reciproco. Noi impariamo tanto da loro. Però bisogna saper leggere le loro esigenze e darsi il tempo.

E l’intelligenza artificiale? Come vi state muovendo?
Ci lavoriamo sia come offerta che come riflessione interna. Uno dei temi più rilevanti è: come formo i giovani se i compiti “junior” li fa l’AI? Il rischio è che si perda la trasmissione delle competenze. Stiamo costruendo un percorso che tenga insieme AI, formazione, esperienza, con l’idea di creare un’economia circolare delle competenze.

Dopoquasi 40 anni di esperienza imprenditoriale, quale consiglio si sente di dare a un giovane imprenditore?
Segui i tuoi desideri, ma mettili alla prova della realtà. Non innamorarti delle tue idee, impara a lasciarle andare se la strada lo chiede. Uso – un’immagine: puoi avere una macchina con tanti cavalli, ma se non sai leggere la strada, rischi di schiantarti. Bisogna sempre guidare alla velocità che il contesto ti consente. E saper rallentare non è un fallimento, è consapevolezza.

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